venerdì 18 aprile 2014

Francesco Carnelutti “Il canto del Grillo”, a cura di Gian Pietro Calabrò, Cedam, 2014


    Esattamente trent’anni fa giunse nella mia scuola un ispettore scolastico. Tutti noi insegnanti, seduti nella sala delle riunioni, ascoltammo in silenzio un lungo sermone su ‘come’ si insegna. Io, allora impavido trentenne, feci notare - con forti accenti critici e suscitando fra dirigenti e colleghi un certo timore reverenziale per l’illustre ospite - che i migliori insegnamenti agli insegnanti vengono dal rapporto con gli allievi.
    Pochi giorni fa trovo nella cassetta delle lettere la recente pubblicazione di alcuni discorsi, tenuti alla radio negli anni Cinquanta dal celebre avvocato Francesco Carnelutti. Un dono del caro amico Gian Pietro Calabrò, direttore della Collana “La testa di Gorgone”, della quale il libro fa parte.
    Non sono mai entrato in un’aula di giustizia, né per accusare né per difendermi, né ho mai seguito con passione le vicende giudiziarie. Ma il nome dell’autore del libro mi era noto, perché ricordo dall’infanzia che, quando mio padre voleva ricondurre alle giuste dimensioni le eccessive pretese oratorie di qualcuno, diceva: “E chi è? Carnelutti?”
    La sera apro il libro e, giunto alla lettura del quinto capitolo, mi sembra di trovare conferma della tesi da me sostenuta trent’anni prima di fronte al Signor Ispettore; una figura che, ancora oggi, tanto mi ricorda gli alti burocrati della Russia zarista, così come descritti nella sua vasta ed insuperata letteratura dell’Ottocento.
    Accertatomi di non far torto all’editore e al curatore del libro, e sperando di fare comunque cosa gradita ai lettori di questo blog, pubblico qui di seguito le due bellissime pagine dedicate da Carnelutti - con l’eleganza che solo gli uomini d’un tempo sapevano padroneggiare - alla natura del linguaggio e al rapporto di reciprocità che lega insegnante e allievi. Come nell’amore e nella carità, anche nell’insegnamento “dando si riceve e ricevendo si dà”, in un circolo virtuoso che si autoalimenta indefinitamente.
Cataldo Marino
  

Francesco Carnelutti    
     << La donna, a un certo punto, partorisce perché non può trattener più l'altra vita dentro di sé. L'uomo parla perché a un certo punto non può più tacere. La donna quando partorisce è in tristezza, ha detto Gesù. Il travaglio del partorire e il travaglio del parlare sono, al fondo, la stessa cosa. Ricordo di avere accennato, tempo fa, a un turgore del pensiero: l'idea preme, come un neonato, per venire al mondo. Il volto dell'artista è contratto nello sforzo come il volto della madre nel generare; e quel soffrire è il prezzo della gioia che viene dopo: guai se quel prezzo non viene pagato. Poi, è tempo di giubilo, «perché è nato un uomo». 
     Un uomo nasce dall'oscuro bisogno che ha l'uomo di uscire da sé. Dallo stesso bisogno nasce la parola. L'uomo parla perché ha bisogno di capire. Capire, da capere: prendere, afferrare, impadronirsi. Ma come: non parla invece per farsi capire? E farsi capire non significa dunque farsi prendere? Sembra che si debba scegliere: prende o si fa prendere? Leggevo tempo fa, in un romanzo di Béatrix Beck, Leon Morin prêtre, che la donna, veramente, prende anzi che essere presa; e sembra la verità, ma la verità è anche l'altra, che è presa anzi che prendere; cioè la verità è più veramente che non esiste, nell'amore, una differenza tra ricevere e dare: dando si riceve e ricevendo si dà. E’ il miracolo della carità, dopo tutto; ma anche il miracolo dell'arte, o il miracolo del pensiero, che è la stessa cosa. Uno non fa capire se non capisce; ma non capisce se non fa capire; perciò ha bisogno di farsi capire per capire: insomma l'idea ha bisogno di sprigionarsi per essere imprigionata; e questa è o almeno sembra essere una contraddizione; ma anche la più sicura esperienza della vita dello spirito, per poco che chi la vive tenga gli occhi aperti. 

     Il compito del maestro non è quello di capire per far capire? Io, nei primi anni d'insegnamento, credevo che avrei detto in iscuola quello che avevo capito, che dovevo avere capito, altrimenti non l'avrei potuto dire. Capire, infatti, non vien prima di far capire? Come avrei potuto far capire quello che non avessi già capito? È mai possibile dare ciò che non si ha? Perciò preparavo scrupolosamente la lezione cercando che non mi restasse nulla da capire di quello che avrei dovuto far capire. 
    Poi, a scuola, succedeva spesso, anzi sempre più spesso, una strana cosa: a un tratto s'illuminava un aspetto del problema, che durante la preparazione era rimasto in ombra e, nello sforzo di farmi capire dagli scolari, affioravano delle formule che chiarivano meglio le cose a me prima che a loro, ond'io finivo per essere il primo scolaro di me stesso. Sul principio, mi facevo per questo un rimprovero, come se non mi fossi preparato a dovere; a poco a poco però le ripetute esperienze mi persuasero che, per quanto diligente fosse stato il mio studio, succedeva sempre la medesima cosa. Qualcosa ci doveva essere a scuola, che mi aiutava a vedere quello che a casa, malgrado la buona volontà, non avevo veduto. Che c'era dunque a scuola in confronto con la casa? 
     L'ambiente? Confesso che io sono uno di quelli, per i quali il luogo in cui lavorano non è indifferente. Se posso scrivere accanto a una finestra spalancata sulla campagna o sul mare, qualcosa di meglio vien fuori di sicuro. Mi sembra di fare, così, provvista di bellezza; e la bellezza è lo splendore della verità, ha detto Platone. Se dal mio studio di Cortina non avessi potuto gettar l'occhio, di continuo, sulle Tofane o sul Becco di mezzo-dì, chi sa se sarebbe venuta al mondo la Teoria generale del diritto? Ma certo, dovunque io sia stato, a Catania come a Padova, a Padova come a Milano, a Milano come a Roma, l'aula della università non mi offriva nulla che potesse paragonarsi, sotto questo punto di vista, al luogo dove preparavo la lezione.

     In quell'aula c'erano, però, gli scolari. E non è a dire che sul principio mi sciogliessero la lingua, gli scolari. Tra le varie specie del pubblico, quella degli scolari è una delle più pericolose. E il pubblico, qualunque sia, a chi gli si affaccia, mette sempre paura; e forse anche di questo riusciremo a intravvedere il perché. Senonché anche la paura è uno stimolo per chi cerca, come deve, di superarla. Il coraggio vero (ne abbiamo parlato l'anno scorso) è quello di vincere la paura. Insomma, in faccia agli scolari, io sentivo più profondamente l'impegno. Almeno è questa la ragione del fenomeno, che mi apparve da principio, quando credevo ancora che il maestro fosse soltanto uno che dà e il discepolo uno che riceve. 
     Poi, quando mi sono, man mano, più sciolto con loro e ne ho tollerato, anzi ne ho desiderato le interruzioni, è stata qualcuna di queste che mi ha aiutato a trovar la ragione più profonda. Non mi ricordo dove (ah! è stato nella prefazione ai Dialoghi con Francesco) ho scritto che se la sapienza non si tuffa di continuo nella ignoranza, rischia di morire asfissiata. […] Che ci possa essere qualche rapporto tra la consolazione dell'ignoranza e la consolazione della filosofia? Fatto sta che quell'ignoranza, qualche volta, illuminava il problema come un raggio di sole: il problema, intendo, che formava oggetto della lezione; ma ha illuminato anche quello, che forma oggetto del colloquio di stasera. 

     Così ho finito per capire che se m’aiutava quello dei discepoli, il quale osava pormi un'ingenua domanda, m'aiutavano anche gli altri che ascoltavano, in silenzio, le mie parole. Questa ho capito poi essere anche la ragione del dispetto cagionatomi da quei pochi, dei quali era manifesta la distrazione. Non capivano, dunque, che avevo bisogno di aiuto? Bisogno, già, bisogno di vedermi davanti quei volti giovanili attenti, donde partivano degli sguardi che parevano veramente raggi di sole; e tutti convergevano su di me ed io mi sentivo come librato nella luce. 
     Fantasia? Può darsi. E lasciatemi fantasticare. Lasciatemi credere che se ci fosse una pellicola sensibile al pensiero avrebbe registrato quel fascio di raggi, che andavano e venivano tra il docente e i discenti, ma il docente non era che uno specchio rivolto a raccogliere una luce piovente dall'alto e quanto più la raccoglieva per rifletterla sugli scolari tanto più questi, essendo degli specchi anch'essi, ne restituivano a lui.>>

Francesco Carnelutti “Il canto del grillo”, Cedam, 2014, pagg. 34-37

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