mercoledì 24 ottobre 2012

Marx: l'esercito industriale di riserva

Quando dicevo che per valutare la bontà del progetto comunista non bisognava tener conto delle realtà storiche dell’est europeo ma dei testi classici del marxismo, mio padre diceva: “Ma chi lo ha veramente letto ‘Il Capitale’ in Italia? Lo ha letto solo Terracini, gli altri ne hanno solo sentito parlare”.
Beh, non ho elementi probanti per poter dire se quella sua affermazione, detta con un po’ di benevola ironia, corrispondesse allora al vero. Oggi comunque di sicuro qualcun altro c’è, oltre a Terracini. C’è ad esempio il Prof. Diego Fusaro, del quale ho parlato nell’articolo del 12 agosto, che Marx deve averlo letto, e bene, visto che ne ha tradotto diverse opere e, con il ponderoso saggio ‘Bentornato Marx!’, al grande filosofo cerca di restituire il giusto rilievo e le giuste connotazioni, opponendosi alle forze neoliberiste che negli ultimi quaranta anni hanno affannosamente cercato di delegittimarlo e marginalizzarlo.
Non è tuttavia del Marx filosofo che ora voglio dire qualcosa, bensì dell’economista e, più in particolare, delle sue idee sull’origine della disoccupazione di massa e della funzionalità di questo fenomeno rispetto all’economia capitalistica, sulla quale oggi si regge l’intero pianeta.

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L’economista, e sociologo, - al quale anch’io, sia pur più sommessamente, voglio rivolgermi con un Bentornato! – per definire la disoccupazione di massa, nel capitolo 23.3 de ‘Il Capitale’ usa una espressione più precisa, quella di ‘esercito industriale di riserva’.
In campo militare esiste un esercito regolare, fatto di militari in servizio permanente, ed una fascia di cittadini momentaneamente esonerati da compiti militari, alla quale però si può sempre attingere quando in situazioni di emergenza bellica l’esercito regolare risulta insufficiente.
Bene, nella società capitalistica il funzionamento delle imprese è sempre garantito da un certo numero di lavoratori stabili, ma poiché, come tutti gli economisti di qualunque tendenza riconoscono, la storia economica è storia di cicli espansivi e depressivi – gli anni delle vacche grasse e gli anni delle vacche magre – le esigenze della produzione non combaciano mai perfettamente con i dati demografici relativi alle persone in età di lavoro. Se in un paese ci sono dieci milioni di persone disposte a lavorare ma, per via di una recessione economica, ne servono solo nove milioni, ci sarà un milione di persone che rimarrà inattivo.
Buon senso vorrebbe che in tal caso venisse diminuito l’orario di lavoro in modo da ridistribuirne il carico fra tutti ed eliminare le disparità fra chi è impiegato a tempo pieno e chi, con gravi danni materiali e morali, resta ai margini della società. Questo è ciò che vorrebbe il buon senso ed anche ciò che dovrebbe accadere secondo il principio liberista che presume sempre l’incontro tra le quantità domandate e le quantità offerte attraverso l’aggiustamento dei prezzi. Ma non è la stessa cosa che possono desiderare gli imprenditori, e ciò per due motivi.

1) Gli imprenditori col loro fiuto, come pure gli economisti coi loro studi, sanno che, quando si è in recessione, ‘ha da passà a nuttata’. Dopo un certo numero di anni - per merito di nuove tecnologie o di interventi pubblici o dell’apertura a nuovi mercati, o per demerito di eventi bellici – la domanda di beni crescerà e loro avranno ogni convenienza ad aumentare la produzione. Ma, se tutti sono occupati, dove trovare altri lavoratori? Ecco, se c’è l’esercito industriale ‘di riserva’, il problema è risolto. E’ un po’ come tenere in frigo quantità di cibo eccedenti le normali esigenze, per far fronte all’arrivo di eventuali ospiti inattesi.

2) Anche prescindendo dall’andamento ciclico dell’economia, ipotizzando cioè un andamento costante e lineare, il fatto che ci sia una parte della popolazione, che agogna a lavorare ma non viene assorbita dalle imprese, finisce per segmentare i lavoratori in più sottoclassi: occupati, sottoccupati, precari e disoccupati.
‘Divide et impera’ consigliavano i grandi strateghi dell’antichità. I lavoratori non sono costantemente e sistematicamente nemici dell’imprenditore, ma è chiaro che, da quando il lavoro è diventato una merce soggetta alle dinamiche del mercato, c’è quanto meno una contrapposizione di interessi. E, allora, segmentare la popolazione lavoratrice in categorie fra loro concorrenti diventa il gioco più impietoso e perverso, ma sicuramente anche il più efficace, per tenere bassi i salari.
Se il lavoratore a tempo indeterminato (per maggiore chiarezza uso la terminologia ormai adottata dai ‘giuslavoristi’ di destra e di sinistra) chiede aumenti retributivi o rifiuta la decurtazione della paga, e non ci sono norme efficaci a sua tutela, l’imprenditore potrà sempre ricattarlo dicendogli che può mandarlo via e dare il suo posto ad un lavoratore a tempo determinato. E se un lavoratore a tempo determinato lamenta la bassa paga o le cattive condizioni di lavoro, l’imprenditore potrà sempre ricattarlo dicendogli che ci sono migliaia di disoccupati che bussano alle porte della sua azienda. E chi, fra questi ultimi, non sarà ben felice di cogliere questa opportunità? La guerra fra poveri è sempre stata la fortuna dei ricchi.

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Tutte queste considerazioni sono già ben esposte da oltre centocinquanta anni nel paragrafo de ‘Il Capitale’ prima citato. Io qui le ho solo riproposte nel modesto intento di contribuire a ravvivarne la memoria fra tutti quelli che hanno messo quelle teorie nel cassetto degli attrezzi obsoleti, e l’ho fatto cercando di renderle più accessibili, anche se Marx, almeno in alcuni passi, ha già di suo una limpidezza cristallina.
Bisogna però dire, e ciò non è assolutamente in contraddizione con le linee tracciate da Marx, che negli ultimi decenni molte cose sono cambiate nel mondo dell’economia, per cui c’è bisogno di aggiornare analisi e programmi.
Vengo dalla recente lettura di ‘Lavoro, consumismo e nuove povertà’ di Zygmunt Bauman, il quale fa notare che oggi con la globalizzazione, che permette la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi più poveri, le industrie dispongono del più grande ‘esercito di riserva’ mai avuto nella storia: “…se la denutrizione cronica – egli dice - affligge 800 milioni di persone, i poveri sono però circa 4 miliardi, ovvero due terzi della popolazione mondiale”.
Le grandi imprese, con l’appoggio dei governi da esse generalmente controllati, non fanno più distinzione fra lavoratori del proprio o di altri paesi e perciò spostano le attività produttive dove c’è maggiore convenienza e cioè nei luoghi dove i salari sono più bassi e il fisco è più leggero.
Queste nuove condizioni permettono di tenere sotto controllo l’andamento ciclico dell’economia: i paesi poveri sono in ‘costante sviluppo’ mentre i paesi sviluppati sono in ‘costante declino’.
Negli anni ’60 c’era una parola che descriveva in ogni momento la situazione economica, la ‘congiuntura’: o vi si stava entrando, o vi si era in pieno, o se ne stava uscendo. I cambiamenti che si stanno verificando in questi anni invece non hanno niente di congiunturale, sono ‘strutturali’ e dunque permanenti, e comunque proiettati in un periodo che va ben al di là dei consueti due o quattro o cinque anni. Per i lavoratori europei e statunitensi, la situazione è cambiata radicalmente: gli imprenditori vanno dove c’è il più alto margine di profitto. Riconoscono unicamente questo principio e, nel realizzarlo, non hanno alcuna remora morale.

Il futuro dei lavoratori europei, allora, è così negativamente e irreversibilmente segnato? In una trasmissione televisiva italiana Zygmunt Bauman dice: “Come è possibile, da un punto di vista scientifico, prevedere il futuro? Tutti gli avvenimenti veramente importanti del XX secolo, e fino a questo momento tutti gli eventi importanti che si sono verificati nel XXI secolo, sono stati assolutamente imprevedibili e ci hanno sorpresi; tutti ci hanno presi, così, in contropiede.”.*
Ma se il futuro è scientificamente imprevedibile, nulla vieta di fare delle ipotesi, comprese quelle che al momento sembrano meno attendibili, quelle che, come metaforicamente dice Bauman, potrebbero “prendere in contropiede’ coloro che sembrano ora determinare il corso della storia.
Una prima cosa che potrebbe accadere è che gli Stati nazionali, opponendosi allo strapotere della finanza internazionale, pongano seri limiti agli spostamenti dei capitali. Se per un secolo la Fiat in Italia è cresciuta, il merito maggiore è stato di tutti coloro che, generazione dopo generazione, vi hanno lavorato, e non dei signori Agnelli o Romiti o Marchionne. E’ anche roba nostra, lo dice anche l’art. 42 della Costituzione (La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina … i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale. … (Essa) può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.)
La seconda cosa che potrebbe accadere è che, con un tasso di sviluppo del 10% annuo, i paesi poveri nel giro di un decennio arrivino ad un livello di vita assimilabile a quello dei paesi ricchi, i quali intanto vanno loro incontro con una decrescita annua dell’ 1-2%. Per quell’epoca è possibile che, fra imprese ed esercito industriale, sia regolare che di riserva, i giochi si riaprano.


Cataldo Marino
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